Kebhouze: un (futuro) successo targato Gianluca Vacchi

Se ne è parlato per settimane, ma finalmente eccolo qui: Kebhouze, la catena di kebab di Gianluca Vacchi, imprenditore e influencer con 41 milioni di follower tra Instagram e TikTok, che ha inaugurato in via Paolo Sarpi, 53, in piena China Town, a Milano, il suo primo store il 5 dicembre.

La data segna l’inizio della nuova avventura di Vacchi in Italia nel campo del food, con un progetto in piena espansione, che prevede l’apertura di altri 3 store di cui due a Milano (in Corso Buenos Aires, 77 e via Vigevano, 41) e un altro a Roma, all’interno del centro commerciale Euroma2, inaugurato lo scorso 22 dicembre.

Entro marzo, poi, Kebhouze si espanderà in Piemonte, Sicilia, Liguria e inaugurerà altri store a Roma e Milano.

L’imprenditore bolognese ha deciso di investire in questa nuova attività frutto dell’idea di un gruppo di giovani ragazzi italiani. A fare l’annuncio della nascita del nuovo brand è stato proprio Vacchi in persona, a modo suo: negli scorsi giorni, nella sua villa di Bologna è comparso Keb, un misterioso personaggio in costume alto oltre 2 metri con una grande testa a forma di kebab su cui si poggia una corona d’oro.

In una serie di video pubblicati sui social di Vacchi viene persino ripreso il momento dell’assaggio del suo primo kebab. Nel video successivo, Gianluca Vacchi e Keb firmano sotto gli occhi di un notaio la costituzione della società.

I giovani ragazzi italiani su cui ha investito fanno parte di «Zon Productions», un’agenzia di comunicazione italiana composta da quasi tutti under 30.

Insomma, se vai di fretta e sei stanco del solito hamburger di plastica, il kebab di Kebhouze è la scelta più ‘veloce’ (ma non ho il coraggio di dirti anche “la più sana”)!

Non ho una laurea in dietistica e non posso prendermi cura del tuo colesterolo, per cui non mi soffermerò assolutamente sui valori nutrizionali dei prodotti Kebhouze, bensì vorrei andare più a fondo, scavando nei meandri dell’identità di questo neonato – italianissimo – brand.

E mi fa sorridere che sia proprio di genitori italiani la prima catena di kebab ispirata al tipico fast food in stile americano, ad inserirsi nel mercato europeo (beh, evidentemente gli americani hanno ancora qualche questione in sospeso con l’oriente, per cui investono ancora in hamburger e patatine fritte).

Questo articolo, invece, ti darà la perfetta chiave di lettura per analizzare da vicino Kebhouze dal punto di vista del brand e del suo marketing.

Un’operazione da fare a ritroso, scomponendo i vari pezzi del puzzle, analizzandoli da vicino per, alla fine, ricomporli ed avere una chiave di lettura molto più nitida e definita.

Ecco qui i cinque punti che andrò ad analizzare:

  • Positioning
  • Colori del brand
  • Claim
  • Partnership
  • Sito web

Innanzitutto, mentre cerchi gli occhiali da lettura, prova a rispondere a questa domanda:

Che cos’è un brand?

Tic, tac… tic, tac…

Prendiamo un dizionario linguistico storico. Il Garzanti. Ci troverai questa definizione: Il brand è il ‘marchio’, ossia “la denominazione commerciale o simbolo che distingue un prodotto, una merce”.

Ma non si tratta solamente del nome con cui chiamiamo un prodotto.

Il brand racchiude in sé una serie di sensazioni che gli individui gli attribuiscono, che possono essere positive o negative.

Un brand può evocare fiducia, sicurezza e/o indignazione; ma non è finita qui: può trasmettere dei valori ai propri utenti.

Che cosa trasmette Kebhouze?

Voglia di farti un buon kebab senza dover ricorrere al kebabbaro, dirai tu (ed avresti anche ragione), ma non solo.

Ci arriviamo dopo.

IMPORTANTE:

Voglio che tu sappia che non ho nessun tipo di legame o interesse nei confronti di Kebhouze. Le mie analisi sono esclusivamente didattiche e non intendono mettere a paragone un locale con un altro dal punto di vista culinario (per quello esiste Tripadvisor), ma fornire una lucida ed imparziale analisi sul brand in questione.

Cominciamo con il primo dei cinque elementi: il Posizionamento.

Elemento #1: Positioning

Ne parlo da quando molti di voi dovevano ancora arrivare alla lettera “P” del vocabolario, la mia libreria straripava di libri sul marketing, poi integrati con quelli più specifici sul posizionamento (ti ho mai fatto vedere l’autografo che Al Ries in persona mi fece su uno dei suoi libri?).

Riassumo in breve:

Con “brand positioning” si fa riferimento ad una specifica parola (o concetto) con la quale un brand riesce a conquistare, a differenza della concorrenza, una posizione di leadership nella mente di un consumatore per un bisogno specifico e rilevante.

Kebhouze si è focalizzata su uno specifico prodotto: il kebab.

Come se non bastasse, si è iper-focalizzata su un segmento di pubblico specifico mai toccato fino ad ora dal settore food: la Generazione Z, ovvero quella generazione di ragazze e ragazzi nati tra il 1995 e il 2010, la cui vita è indissolubilmente legata ai social network.

Non sono mai stato un genio in matematica, ma una piccola somma posso riuscire a farla anche io:

Focus -> (Generazione Z) +

Posizionamento -> (Kebab in stile American fast food) =

Kebhouze – Il kebab preferito dalla generazione Z

Come spiega Al Ries, padre del posizionamento di marca: “Lapproccio di base del posizionamento non è quello di creare qualcosa di nuovo e di diverso, ma manipolare quello che già esiste”.

Questa speciale preparazione esiste infatti fin dal medioevo e, come la pizza, è sempre stato un piatto anonimo dal punto di vista del brand. Abbiamo dovuto aspettare gli americani per scoprire che era possibile costruirci attorno un business miliardario (vedi Pizza Hut, Dominos Pizza, Papa John’s, ecc.)

Nessuno mai ha creato attorno a questo squisito e speziato prodotto di origine persiana un brand che, come per ogni cibo di strada, esaltasse al massimo la sua praticità nel poter essere mangiato in pochi minuti, senza troppe pretese, ad un semaforo.

Ad onor del vero, è stato Naser Ghazal, imprenditore di origine palestinese, fondatore nel 2001 di Skk, il primo Kebab franchising della Penisola, il primo imprenditore in grado di crearci un business attorno.

Vacchi, con il suo Kebhouze, ha dato maggiore risalto ad un piatto fin troppo spesso sottovalutato, snobbato e deriso. Lo ha riposizionato come un’alternativa valida e veloce per i giovanissimi che amano questo celebre piatto arabo, ma sono stanchi del solito “kebabbaro” di strada spesso irritato, scontroso e poco aperto al dialogo.

Kebhouze è la casa del vero kebab con carne made in Italy.

Se vuoi un hamburger vai da McDonald’s o Burger King, perché qui non abbiamo voglia di omologarci alla mischia”. Ecco, andava detto. Lo faccio io per loro.

Quando parlo di posizionamento mi riferisco in particolare al loro menù:

  • Kebab
  • Kebsalad
  • Kebneggets
  • Kebfries
  • Keburger
  • Kebsweetie (no, non troverete kebab ricoperti di cioccolata, ma la scelta del naming è alquanto sensata)

PS: Non dar retta a quelli che diffondono il verbo secondo il quale il focus debba essere strettissimo a prescindere su UN PRODOTTO.

Non credere che se si vende kebab allora non si possa vendere contemporaneamente dolci di fine pasto o insalate. Dimenticalo sul serio.

Il fine ultimo del posizionamento è VENDERE.

Il fine ultimo del marketing è VENDERE.

Se non hai prodotti con i quali up-sellare e/o cross-sellare i tuoi clienti a fine pasto, NON MARGINI A SUFFICIENZA e quindi sei nella melma.

Specialmente se non sei (ancora) top of Mind di un pubblico molto vasto.

Quindi oserei dire: buona la prima!

Il marketing non è una questione di magia, ma una questione di brand.

Non so se Gianluca Vacchi abbia studiato o meno marketing, ma mi sembra di capire che in tal senso che non sia l’ultimo arrivato, e questa partnership con i giovani di cui sopra sembra essere una cosa molto, molto sensata.

Quando studi il tuo brand positioning, fai come lui: evita come la peste questi 6 errori:

#1: Essere orientato al cliente e non al concorrente

Probabilmente, la maggior parte dei tuoi concorrenti è orientata al cliente. Succede quindi che tutti i tuoi competitor finiscono con il mettersi sul mercato con un prodotto simile a quello degli altri.

Laura Ries, figlia del celebre Al, spiega:

“Nel 2009 abbiamo iniziato a lavorare per la Great Wall Motor in Cina. Secondo delle ricerche che abbiamo svolto con il cliente, è emerso che gli acquirenti cinesi preferivano berline piuttosto che i SUV, perché le prime sono più prestigiose e i SUV sono considerati veicoli pratici senza status sociale; Quindi abbiamo consigliato a Great Wall di concentrarsi sui SUV perché le altre 28 aziende automobilistiche cinesi si sarebbero probabilmente concentrate sulle berline; Di conseguenza, la Great Wall è diventata la più grande e più redditizia azienda automobilistica cinese.

Ecco. Gli imprenditori (anche i piccoli) dovrebbero fare lo stesso. Inizia analizzando i concorrenti e cerca di trovare un modo per essere diverso. Non puoi vincere essendo il migliore; puoi vincere solo essendo diverso.

Quante chance di successo avrebbe potuto avere Kebhouze se si fossero messi a fare hamburger e patatine, al cospetto delle multinazionali?

Te lo dico io: ZERO! Invece così potrebbero puntare a diventare globali o ad una exit straordinaria nel giro di pochi anni. Ne riparliamo in futuro, intanto segnati queste parole.

#2: Non definire il tuo obiettivo

Ogni marchio di successo ha (e deve avere) un proprio obiettivo. Se il tuo marchio è leader di mercato come Pizza Hut, il tuo obiettivo è la leadership.

Il suo competitor, invece, Domino’s Pizza si è focalizzata su un altro tipo di obiettivo, e cioè sulla consegna a domicilio, diventando la seconda più grande catena nella vendita di pizza.

Papa John ha legato al proprio claim il proprio obiettivo: ingredienti migliori, pizza migliore.”

Little Caesars ha ridotto il proprio obiettivo a due pizze al prezzo di una”.

Ci sono centinaia di catene di pizzerie, ma queste quattro catene dominano la categoria.

Chiediti in quale categoria stai competendo e come puoi esprimere in due o tre parole il tuo elemento differenziante.

Nulla di più difficile, ma confido in te.

#3: Pensare che i nomi non abbiano importanza

L’azienda Hansen Natural ha avuto la grande idea di lanciare un energy drink che potesse competere con quella lanciata da Red Bull e degli altri brand di energy drink.

Il nome del marchio era: Hansen’s Natural Energy Pro.”

Inutile raccontarti di come il marchio non sia andato da nessuna parte.

Hansen ha poi lanciato la stessa bevanda energetica, cambiandogli il nome e facendola diventare Monster, in una lattina da 0,5 l, che riflettesse la propria idea differenziante, ovvero quella di avere una lattina le cui dimensioni fossero il doppio di quelle del leader (Red Bull).

Oggi Monster è un marchio molto consolidato, secondo solo a Red Bull stesso.

È stato acquisito da Coca Cola, che nel frattempo aveva provato a lanciare Burn nello stesso segmento, ma senza alcun riscontro positivo di rilievo, malgrado gli ingenti capitali investiti.

Immagino (spero) tu conosca la prima legge del Marketing canonizzata da Al Ries & Jack Trout: Meglio primi che migliori.

Da qui discende che red Bull e Monster si erano beccati quasi tutte le quote di mercato degli Energy drink, e quindi A PRESCINDERE DALLA PROPRIETÀ E DAGLI INVESTIMENTI, Burn non aveva alcuna possibilità di farcela.

I nomi vengono alla fine.

Gli imprenditori devono PRIMA sviluppare una strategia di marketing e solo DOPO dare un nome ai loro prodotti o ai loro servizi in modo da riflettere tale strategia.

#4: Non usare un forte Visual Hammer

Molti brand forti sono stati costruiti utilizzando un Visual Hammer che comunica qualcosa riguardo la marca.

  • Il profilo della bottiglia di Coca-Cola
  • Il cowboy della Marlboro
  • Il lime della birra Corona
  • Il clown di McDonald’s
  • etc.

Prima di lanciare un prodotto o servizio, gli imprenditori dovrebbero cercare di trovare un Visual Hammer che rafforzi la strategia di marketing del proprio brand.

Molto spesso questo richiede un cambiamento di strategia o un nome del marchio differente, o entrambi.

Devi essere pronto a rischiare.

#5: Pensare che il tuo nuovo brand decollerà rapidamente

Questo porta a molte decisioni sbagliate, come ad esempio spendere pesantemente in pubblicità per lanciare il marchio.

Non ti parlerò di pubblicità in questo articolo. Hai tantissimo materiale GRATUITO a disposizione da studiare qui sul blog, oppure, molto più semplicemente, il mio ultimo libro: Capitani Coraggiosi

Natale è passato, ma puoi sempre farti un regalo last minute. Fai un favore al tuo business: prendilo adesso, avrai tutto più chiaro e non dovrai più cercare informazioni sparse articoli su articoli. E’ tutto lì.

Ma andiamo avanti.

#6: Estendere il marchio

Una volta che il marchio comincia a decollare, è necessario resistere alla tentazione di espandersi.

Guarda Yahoo, una società che un tempo dominava il mercato della ricerca su Internet e valeva $140 miliardi sul mercato azionario.

Quale l’errore più evidente?

Pensare a se stessa come a una media company – Yahoo ha sempre pensato a se stessa più come a una media company che ad un motore di ricerca. Si è rapidamente diversificata in un portale dove c’era “la qualunque”.

Oggi, Yahoo vale solo $30 miliardi di dollari sul mercato azionario.

Nel frattempo, Google è rimasto solo un motore di ricerca ed ha ora un valore di $498 miliardi di di dollari sul mercato azionario.

Fatta eccezione per l’espansione geografica, gli imprenditori non dovrebbero quasi mai espandere i propri marchi.

Dovrebbero fare il contrario: restringere il proprio Focus proponendo un ventaglio ristretto di prodotti/servizi. Puntare ad un vertice sul quale far coincidere tutte le azioni di marketing, e vendere come up-sell e cross-sell il resto.

Va detto che se operi in un ambito ristretto, il concetto di focus non ha questa stessa valenza. Ma non è questo il contesto per approfondire questi concetti.

Elemento #2: I Colori del Brand

Nei meandri della cosiddetta Brand Identity, un solo errore potrebbe rivelarsi fatale per la tua azienda, soprattutto se parliamo di food: la scelta dei colori del brand.

Non scegliere mai il colore del tuo brand in base al tuo gusto, MA in base a come viene percepito dai tuoi clienti.

Per capire come viene percepito, tieni in considerazione questi due elementi:

  • il contesto in cui opera il tuo business
  • il significato che ha quel colore in quel contesto

Per farti capire quanto sono importanti questi due concetti, ti faccio un esempio al volo:

Consideriamo il Rosso.

È un colore molto intenso e potente, solitamente abbinato al concetto di amore o passione, ma NON è sempre così.

Ogni contesto riflette un significato diverso:

  • in un contesto medico ricorda il sangue
  • in un contesto finanziario ricorda un saldo negativo
  • in un contesto scolastico ricorda un errore
  • in un contesto stradale ricorda un pericolo

Per noi italiani, come sai, usare un abito da sposa rosso è assolutamente inappropriato; in Cina, il rosso è invece il colore tradizionale del matrimonio proprio perché è associato a fortuna, prosperità, felicità e via dicendo.

Per ragioni di tempo non posso spiegarti da cima a fondo quanto sia importante l’utilizzo dei colori nel marketing, ma – per tua fortuna – la mia strabiliante collaboratrice Erica ha scritto un bel po’ di righe sull’argomento.

Per cui, ecco qui il suo articolo!

Torniamo a Kebhouze.

Il cibo si mangia prima con gli occhi e poi con la bocca!”.

Quante volte abbiamo sentito dire ad un nostro commensale questa frase a tavola?

Noi ruotavamo gli occhi. Eppure lui aveva ragione.

Che si tratti di loghi, packaging o salse, i colori hanno un effetto davvero curioso sul nostro cervello.

Il colore nel food è infatti in grado di presentarci un cibo come desiderabile o detestabile, ed è persino in grado di scaturire delle sensazioni nel nostro cervello e di rendere invitante un piatto piuttosto che un altro.

Pensa a quando eri un bambino.

Odiavi tutto ciò che fosse verde e andavi pazzo per cibi dai colori stravaganti come il rosa, e questo perché il primo ricorda il sapore di verdure come broccolo, mentre il secondo quello dello zucchero filato.

Il colore ha un ruolo fondamentale non solo perché rende un prodotto attraente a livello visivo, ma perché ha la responsabilità di comunicarne il gusto, l’aroma, la consistenza.

Se così non fosse, per quale motivo esisterebbero i COLORANTI ALIMENTARI?

Guardiamo da vicino i colori di Kebhouze.

Blu, giallo e rosso: ecco a voi Burger Kin… ah no, scusa!

Intendevo dire Kebhouze!

Beh, ci siamo capiti. L’originalità nella ristorazione è spesso un miraggio.

Quello dei colori in ambito food è un mondo molto spesso sottovalutato, ma nasconde un grande potenziale.

Guardiamo ancora più da vicino quelli scelti per il nuovo brand di Vacchi & Partners:

Rosso: evoca la passione e, attivando la ghiandola pituitaria, produce tutta una serie di ormoni che aumenta, di conseguenza, i battiti del cuore alla sola vista. E’ un colore potente, in grado di attirare l’attenzione, ed è per questo che è frequentemente utilizzato in ambito food.

Giallo: anch’esso utilizzato nel settore food, è accostato all’ottimismo, alla creatività e all’energia. Diffonde positività e calore, motivo per cui è il colore utilizzato da McDonald’s per i suoi celebri totem a forma di ‘M’.

Quante volte, in autostrada, affamato dopo chilometri e chilometri di viaggio, hai ringraziato il cielo dopo aver visto da lontano quel marchio?

Violetto: ultimo colore. Non è proprio il blu di Burger King, ma la tavolozza dei colori prevede significati pressoché simili tra i due.

Indica fascino, mistero e sofisticatezza.

Insieme i tre colori rendono il marchio di Kebhouze abbastanza riconoscibile per le città, anche e soprattuto grazie ad un potente Visual Hammer: Keb.

Elemento #3: Visual Hammer

“Keb” è la mascotte di Kebhouze, protagonista indiscusso della strategia di lancio della catena.

E’ una figura giovanile che si presenta come un ragazzo trendy e cool, dissoluto e spiritoso, in pantaloncini, maglietta e snickers. Parte della strategia di lancio progettata al millimetro dall’agenzia e probabilmente da Gianluca Vacchi, prevedeva la diffusione, da parte di Keb, di una sorta di kit di sopravvivenza brandizzato Kebhouze, con filtri e cartine, mentine e preservativi con la scritta “Proteggiti”.

Keb parla al proprio target esattamente come, tantissimi anni fa, Ronald McDonald parlava a tutti quei bambini che non vedevano l’ora di mangiare hamburger e patatine fritte nel loro locale preferito.

Oggi, McDonald ha cambiato la propria strategia di comunicazione, riferendosi sempre più agli automobilisti (lo stesso target al quale si riferiva in passato, nell’anno della loro apertura) e meno alle famiglie.

Tuttavia, Keb presenta estreme analogie con i due maggiori competitor in ambito food, come la corona (chiaro riferimento a Burger King, per enfatizzare la qualità dei prodotti rispetto al Mc), ma anche la presenza di un personaggio fisico che interagisce con i propri clienti all’interno degli store, come faceva il clown di McDonald’s tempo fa.

Tutte le strategie vincenti in ambito food sono state strutturate su un nuovo business: quello del kebab di grande qualità, presentato ai giovani a mo’ di fast food, in chiave moderna e spiritosa.

Kebhouze non è quindi solo un luogo nel quale assaporare un buon kebab, ma anche un luogo nel quale la generazione Z può incontrarsi, scattare selfie con Keb, fare storie per instagram o video TikTok ed incontrare vecchi amici e poterne conoscere di nuovi; il tutto all’interno di un locale cool e ‘super-strafico’.

Oh, piccola nota a margine: non sarà troppo da BOOMER scrivere “super-strafigo”? Vabbè, tanto quelli della GenZ vanno a mangiare il Kebab da Vacchi, mica leggono me, dai.

Vacchi ha avuto dei trascorsi particolari, gossip e maldicenze che probabilmente sono giustificate più dal suo status di persona privilegiata che dall’essere quello sbandato che in tanti vogliono far apparire.

Quando un italiano vede passare una macchina di lusso il suo primo impulso non è averne una anche lui, ma tagliarle le gomme.”

Questa frase di Indro Montanelli è senza dubbio emblematica del rapporto dell’italiano medio con la ricchezza, e soprattutto con chi ne dispone.

È innegabile che Gianluca Vacchi sia un “personaggio sui generis”.

Aggiungo che non si può sottacere il fatto che non è semplice o banale riuscire ad applicare i principi del brand positioning in modi così raffinati, soprattutto su un target simile, in costante bilico tra moda e tendenza.

Sono felice di vedere che i social media, se utilizzati correttamente per fare branding e soprattutto come in questo caso per Vendere, possono davvero portare grandi risultati nelle casse aziendali. Non mi resta che dire “chapeau”!

Niente a che vedere con le boiate alla Taffo, tanto per intenderci.

Lavoro nel mondo della pubblicità e del marketing da quando si usavano i fax ed i floppy disk, per cui penso di avere un po’ di autorità per complimentarmi con Gianluca ed i suoi partner.

Per quel che mi riguarda, ha dimostrato di non essere il figlio di papà con il portafogli pieno, senza talento, né voglia di lavorare, come è stato demonizzato in passato.

E’ un bravo imprenditore, con una bella visione del marketing, in grado di saper applicare la propria strategia al social network (e questo, detto da me, è più che un complimento). Ha, inoltre, un grande fiuto per gli affari, e questo lo dimostra il fatto di aver investito in un brand con delle ottime possibilità di crescita.

Cosa riesce meglio a Gianluca Vacchi? Apparire sui Social nella sua veste di “influencer”. Chi altri riesce a mettere in leva questa capacità come sta facendo lui? La Ferragni, ok. Poi? Khaby Lame, si. Poi? Il buio totale di una masnada di soloni senza arte né parte che si sentono fighi per qualche centinaio di migliaio di follower.

Adesso torniamo al quarto elemento: il grido di battaglia.

Elemento #4: Battlecry

Come ci siamo detti più volte, la costruzione di un brand avviene attraverso cinque fasi:

  • la prima è il focus
  • La seconda è la categoria
  • La terza è il chiodo verbale (in gergo Verbal Nail)
  • La quarta è il martello visivo (Visual Hammer)
  • La quinta, infine, è quella del Battlecry (grido di battaglia)

Il primo passo è quindi avere un focus, focalizzare i tuoi obiettivi: senza una adeguata focalizzazione non ci sarà nessun brand da costruire; le altre fasi sono di esecuzione.

Il secondo punto è la categoria: se il brand è la punta, la categoria è l’iceberg sottostante perché, prima ancora della marca, il consumatore finale pensa prima a quest’ultima.

Il terzo passo è il Verbal Nail che va usato per un determinato brand in una determinata categoria; non può essere uguale per tutto. Molti slogan non sono visibili, ed è per questo motivo che, per far permeare nella testa del consumatore un’idea, bisogna usare le parole.

Immagina il posizionamento come un grosso martello che colpisce ripetutamente un chiodo (ovvero il verbal nail) per far entrare un determinato concetto nella tua mente.

Il quarto step è il Visual Hammer; è un succedaneo del Verbal Nail. Il chiodo verbale è molto più importante, ma senza un martello visivo le parole non funzionano. L’immagine è necessaria affinchè il chiodo verbale si insinui nella mente del consumatore.

L’ultima fase è il BattleCry. Il grido di battaglia passa per i suoni! Il cervello umano non ha parole, ma solo suoni; questi ultimi vengono percepiti dai neuroni cablati nel nostro sistema neuronale. Il cervello umano può avere 23 miliardi di connessioni di suono che sono collegati tra di loro.

Come vengono collegati?

Di solito riesce facile attraverso le rime: le parole che rimano si stimolano vicendevolmente. Queste piccole nozioni scientifiche sono necessarie per l’assemblaggio del messaggio che sto lanciando.

Funzionano da grido di battaglia anche le allitterazioni, le ripetizioni e le inversioni: tutti giochi di parole che permettono al martello visivo di funzionare.

Ma il brand, per essere vincente, ha bisogno che tutte e cinque le categorie siano usate a dovere.

Fino ad ora, Kebhouze sembra avere grandi potenzialità per far crescere il proprio brand.

Se è vero che il battlecry serve ad esaltare in modo lampante il proprio posizionamento, quello utilizzato da Kebhouze, “It’z kebab baby”, è un valido esempio di payoff.

Perché parlo di payoff?

Il payoff ha il compito di riassumere in una frase assai semplice lessenza dellazienda.

Cosa vende Kebhouze?

Corretto! Trapaniamo la mente dei prospect con quella parolina magica.

Ecco quali regole deve rispettare un buon payoff:

  • Il messaggio deve sinteticamente comunicare il core del brand
  • Deve essere ESTREMAMENTE semplice da capire (e questo dipende molto dal target)
  • Deve essere memorabile, semplice da ricordare per un potenziale uso quotidiano
  • Deve entrare nella mente del prospect
  • Deve spiegare il proprio posizionamento

It’z kebab baby” è un buon payoff proprio perché rappresenta una ripetizione pedissequa del core-business di Kebhouze: il kebab, baby!

Funziona non solo perché è in grado di entrare nella testa delle persone, ma perché ripete in maniera ridondante quello che la gente si aspetta di trovare lì dentro.

Compito per casa:

Utilizza anche tu un payoff ad hoc per martellare il tuo target.

Spesso, quando un claim entra nella testa delle persone, e funziona, i creativi sistematicamente lo distruggono.

Perchè loro si stancano di ascoltare sempre lo stesso slogan. Bisogna cambiare, cambiare, cambiare! Rinnovare, sperimentare, svecchiare (un po’ come è successo per Barilla, dove per chissà quale inspiegabile strategia pseudo markettara hanno eliminato l’inesauribile “dove c’è Barilla c’è casa”).

Bel lavoro, ragazzi. Siete giovani, siete belli, avete del potenziale.

Consiglio per il futuro. Si, parlo a te che stai leggendo questo articolo: crea un claim che contenga questi due ingredienti: USP e Concetto Posizionante.

Se non sai cosa sono, come detto prima, hai tutto qui:

Capitani Coraggiosi

Elemento #5: Sito Web

“Il fine giustifica i mezzi”, diceva qualcuno.

Avrei una considerazione da fare riguardo il sito web di Kebhouze. Non credo sia uno dei migliori siti che abbia mai visto, ma bisogna pensare ad un aspetto molto importante: nell’atto pratico, a loro, un sito internet serve a ben poco!

Il loro target di riferimento ha tra i 15 ed i 25 anni, vive su Instagram e Tik Tok. Non serve a nulla un sito (al momento)!

Dal punto di vista istituzionale, beh, anche la fioraia del mio paese ha un proprio indirizzo web; sarebbe grave se così non fosse, ma non è questo il punto.

Se è vero che il fine giustifica i mezzi, allora Kebhouze sta già facendo un grande lavoro sui social; e questo gli basta.

Il profilo Instagram di Kebhouze serve da vetrina per generare PR ed incuriosire le giovani affamatissime leve a visitare i loro ristoranti.

Instagram è inoltre l’unico modo per seguire da vicino ‘La vita di Keb’ (la mascotte di cui parlavamo prima), ovvero ogni novità che riguarda Kebhouze, fondendo quindi il virtuale con il reale, permettendo ai propri clienti di essere sempre aggiornati su nuove uscite, sconti ed offerte!

La mascotte è infatti costantemente in giro per le vie di Milano o Roma alla ricerca di qualcosa di interessante da fare.

L’ultima storia Instagram che ho sbirciato lo mostrava mentre infastidiva due poliziotti a bordo della loro auto… (diciamo che Keb non è proprio un bravo ragazzo, eh).

Sono sicuro che, con il tempo, i ragazzi di Kebhouze avranno tutte le risposte che vogliono. Pian piano l’azienda crescerà e con loro si evolverà anche il loro marketing.

C’è senza ombra di dubbio qualche accorgimento da segnalare a Gianluca Vacchi, ma poco importa. Questa è una partita che, al momento, e lo dico con molta CAUTELA, va giocata sui social.

Il regno di Gianluca Vacchi, Instagram, è quindi il fulcro dell’attività promozionale. Quelle vanity metrics che qui abbiamo sempre disprezzato (e continueremo a farlo) sono in via del tutto eccezionale un ottimo modo per TESTARE un business molto particolare come quello del fast food per i giovanissimi.

Il marketing non cambia; la comunicazione si.

Altro asso nella manica sfornato da Vacchi e soci riguarda la potente partnership con Heinz, il re delle salse da fast food. oltre alla loro originale Keb Sauce, è possibile provare una grande varietà di salse all’interno degli store. Una collaborazione che ha messo sotto i riflettori Kebhouze, convincendo – qualora ce ne fosse stato bisogno – chi non era pienamente convinto, a provare il loro succulento kebab ricoperto da mille e più golosissime salse.

Quando cerchi nuovi modi per far conoscere la tua attività ai clienti, c’è un’opzione che potresti non aver considerato. Si chiama co-marketing, ovvero una collaborazione tra due o più aziende con l’obiettivo di creare una campagna di marketing reciprocamente vantaggiosa che aiuti tutti i soggetti coinvolti a raggiungere i propri obiettivi aziendali.

Non è raro che le piccole imprese approfittino di questa particolare forma di marketing che garantisce grandi risultati con il minimo sforzo, poiché semplicemente – all’inizio – non hanno i soldi o le risorse necessarie da dedicare al marketing.

Alcuni esempi di partnership recenti possono essere rappresentati da marchi molto prestigiosi. Pensa, per esempio, alla collaborazione tra Granarolo e Loacker nel prodotto “La merenda della Lola”, ovvero una merenda gustosa studiata con un esperto nutrizionista; e ancora, tra Valfrutta e Parmareggio, in una merendina molto simile alla precedente; ma anche Citterio, Amica Chips e così via…

Nel co-marketing, non solo i marchi lavorano positivamente tra loro, ma dato che i clienti adorano ricevere omaggi e prodotti in co-branding, puoi creare un effetto sorpresa molto soddisfacente nei loro confronti.

Ultima carta (immancabile anche se non indispensabile*) al giorno d’oggi è la forte attenzione anche alla sostenibilità ambientale, con un food packaging completamente eco-friendly, comprese le acque naturali in tetrapack brandizzate Kebhouze.

Checchè se ne dica o se ne pensi, le scelte d’acquisto (ancora) non passano per la sostenibilità. Dai uno sguardo a questi grafici:

Fonte: https://newconsumer.com/wp-content/uploads/2021/12/Consumer-Trends-2022.pdf

Fonte: https://newconsumer.com/wp-content/uploads/2021/12/Consumer-Trends-2022.pdf

Comunque…sostenibilità anche in chiave di economia locale – dal momento che Gianluca Vacchi e soci hanno scelto di valorizzare aziende italiane da cui viene fornita tutta la carne – e dei produttori locali, con cui ad esempio si è instaurata una collaborazione sulla produzione di due diverse birre artigianali che saranno presenti in store a marchio Kebhouze.

Il marchio sarà inoltre presente su tutte le piattaforme di delivery come Glovo, Deliveroo, Just Eat e Uber Eats.

Insomma, uno dei mantra del Brand Positioning è – indiscutibilmente – quello di colmare un vuoto nel mercato, assicurandosi prima che il proprio prodotto o servizio sia in grado di soddisfare pienamente un bisogno insito nei meandri della mente del proprio prospect.

La domanda da un milione di dollari è, a questo punto: in una società che vede nellhamburger lo street food per eccellenza, esiste ancora spazio per una catena di… kebab?

Come per tutte le risposte intelligenti: non si può dire adesso. Lo vedremo; col tempo. Non possiamo non rischiare. Non dobbiamo avere la presunzione che andrà sempre tutto bene.

Del resto Siamo venditori. Non siamo artisti.

DAJE. FORTE. SEMPRE.

Cosimo Errede