Perché alcune tecniche di PNL usate nell’advertising negli ultimi 20 anni hanno portato le pubblicità a non vendere più.
Ti sei mai chiesto qual è stato il momento esatto in cui le pubblicità hanno cominciato a non vendere più?
Non ti è mai capitato di pensare a come si è arrivati fino al punto in cui, per una piccola media impresa (e anche per i grandi marchi) italiana, affidarsi a un’agenzia di advertising è diventato come puntare tutto quello che hai sul 9 rosso alla roulette?
Se sei presente con la tua attività e col tuo marchio in Italia da almeno una ventina d’anni, avrai vissuto gli anni 2000 e la grande ascesa di Internet come una delle più grandi rivoluzioni della storia dell’uomo sul piano della comunicazione (e non), ma anche con la sensazione che il controllo ti stia scivolando dalle mani.
Attenzione però, perché non è certo di Internet la colpa. O meglio.
Da una parte è vero che la navigazione sul web, aprendo infinite finestre sul mondo ha portato i consumatori ad alzare barriere difensive sempre più altre contro gli annunci pubblicitari.
Negli ultimi anni poi le più grandi piattaforme di navigazione come i motori di ricerca e i social network hanno iniziato a indossare sempre di più l’abito da commerciale, diventando (sia Google che Facebook) i canali pubblicitari più importanti assieme all’etere.
Sappiamo tutti che su Internet è possibile trovare di tutto, e che ci sia un bombardamento costante di annunci pubblicitari che rubano sempre meno attenzione ai nostri occhi.
D’altra parte però è importante per te capire subito che, se proprio dovessimo andare a cercare dei motivi per cui l’advertising ha smesso di funzionare, questi motivi non sarebbero l’aumento esponenziale dell’internet advertising o dei social.
Il momento storico in cui la pubblicità ha cominciato a soffrire delle varie e gravi disfunzioni che tuttora si trascina dietro, è precedente alla nascita di Internet o per lo meno alla sua evoluzione come canale pubblicitario di massa.
Precedente, e anche di molto, perché dobbiamo fare un bel passo indietro di almeno 50 anni rispetto ad ora.
Ora non voglio certo stare qui a sciorinarti una di quelle insopportabili lezioni di storia con date e avvenimenti che invece tanti altri pubblicitari piace sfoggiare per pura vanità di sé, senza essere utile in nessun modo a chi legge.
Ti basti sapere che in quegli anni (negli anni ’60 per intenderci) a un approccio più “scientifico” all’advertising si è lentamente sostituito l’approccio creativo, che si basa più sull’aspetto artistico ed emozionale della pubblicità che sulle regole ferree (e, sottolineiamo, spesso retrograde e non sempre davvero efficaci e reali come lo sono le regole scientifiche, ad esempio).
Fin qui tutto bene o quasi, perché se il maggior esponente di questo momento della pubblicità si chiama Bill Bernbach, una delle menti più geniali e meravigliose che la storia dell’uomo abbia conosciuto, allora siamo a posto.
Quella di Bernbach fu una vera e propria rivoluzione e creò letteralmente nuove tecniche per fare advertising efficace, che univano a grande creatività anche efficacia e apporto tecnico.
Delle campagne pubblicitarie di Bernbach te ne ho parlato in un altro articolo, quindi per ora preferisco soffermarmi su altri aspetti.
Torniamo con lo sguardo in terra italiana dove il panorama era completamente diverso da quello americano.
L’Italia post bellica degli anni ’50 era in ricostruzione, con una grande domanda di beni di consumo generici e una bassa offerta, in quegli anni alle aziende bastava immettere il prodotto sul mercato.
Negli anni ’60 però il metodo tutto italiano del Carosello fino a fine anni ’70 fu come un posto di blocco per l’advertising italiano che si vide costretto a sottostare al monopolio della Rai e alle regole democristiane.
Contemporaneamente alla morte di Carosello, alla fine del monopolio Rai, del governo democristiano, e alla crescita economica, si assiste a una iper produzione di pubblicità, come una bolla che fino a quel momento si era gonfiata fino a scoppiare.
E mentre la situazione economica negli anni ’80 si complica con la diminuzione della domanda e l’aumento della competitività in qualsiasi settore, i pubblicitari italiani lentamente abbandonano le idee (troppo rigide e scientifiche) di Hopkins e Reeves sull’hard selling e abbracciano il “soft selling”, in cui al prodotto pubblicizzato viene associata una storia, un’immagine e una carica di emozionalità.
Fu proprio come se i pubblicitari, dopo il periodo di crisi degli anni ’60 e ’70 volessero riprendersi i propri spazi e il potere di sfogare la propria creatività.
Esempio palesi della piega che prese l’advertising tra gli anni ’80 e ’90 furono le campagne di Jacques Seguela basate sulla “star strategy” ovvero sull’idea del “prodotto come super star dello spot”.
Barilla, Lavazza, Ramazzotti e Mulino Bianco erano i brand protagonisti di quel modo di fare advertising. La storia della marca e la qualità percepita del consumatore erano tutto, in quegli anni.
Dagli anni ’80 in poi con la globalizzazione dei mercati e l’aumento della concorrenza in qualsiasi settore la pubblicità ha iniziato a vendere sempre di meno, le marche hanno cominciato a essere attaccati da prodotti concorrenti a basso prezzo e le grandi storie pubblicitarie hanno smesso di funzionare.
Ed è proprio qui, a cavallo tra gli anni ’90 e i ’00, in cui l’advertising affronta uno dei momenti di sua più grande crisi, che entrano in gioco particolari studi americani sulla PNL, la programmazione neuro linguistica.
Le tecniche di PNL in quegli anni diventarono molto di moda perché vennero impacchettate come tecniche avanzate di vendita e introdotte in praticamente tutti i corsi di formazione per venditori.
E così in televisione cominciarono a girare spot di questo tipo:
Già da anni le strategie di soft selling avevano ampiamente superato quelle di hard selling basate sulla pubblicità diretta esclusivamente alla vendita del prodotto grazie a un unico vantaggio concorrenziale.
Le tecniche di PNL servirono a rafforzare la convinzione tra i pubblicitari che l’advertising dovesse servire ad “ancorare” il consumatore alla marca, portandolo ad un picco emozionale molto alto e legando a quel picco emozionale, il marchio del prodotto.
Cosa sono gli ancoraggi nella PNL?
Fare un ancoraggio vuol dire associare un segno ben preciso (uno stimolo, un profumo, un gesto o una canzone) ad un determinato stato d’animo.
Hai presente quando ascolti una particolare canzone e automaticamente la ricolleghi alla persona che ami, rievocandone tutte le emozioni associate? O quando senti un profumo e rivivi sensazioni passate?
Ecco, quelli sono ancoraggi.
Per farla breve:
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il prodotto quasi sparisce dall’advertising
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i benefici del prodotto non esistono più
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la proposta unica di vendita viene eliminata
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non viene più data nessuna ragione al consumatore per acquistare
Quello che alcuni PUBBLICITARI PIENNELLARI definiscono “linguaggio ipnotico” altro non è che un pittoresco modo di porsi, per far leva esclusivamente sulla buona fede dello sventurato imprenditore di turno
Proviamo ad analizzare un attimo lo spot del video visto prima.
In un minuto e 16 secondi di video vengono mostrati dei frame di Micheal Jackson che si prepara a salire sul palco. A tutto volume c’è uno dei suoi brani più famosi. A un certo punto lui sale sul palco, le luci esplodono e si inquadra la gente in visibilio.
Adesso. È evidente che nel 2016 uno spot dl genere non avrebbe più nessuna presa sul pubblico, a maggior ragione dopo gli ultimi eventi che hanno rovinato per sempre l’ultimo residuo di immagine positiva dei fan di Michael Jackson.
Ma questo spot è degli anni ’90, l’apice massimo del Re del pop.
Vi ricordate cosa significava per i fan di Jacko di tutto il mondo vedere un suo concerto in TV?
Per farla breve un orgasmo dei cinque sensi.
Alla fine dello spot, marchio e slogan. Niente altro. PEPSI: THE CHOICE OF A NEW GENERATION.
La nuova generazione pop, la generazione X fan di Michael Jackson beve Pepsi. Stop.
Ecco come si è evoluto il messaggio pubblicitario e come tuttora viene costruito
emozione/sensazione + marchio/prodotto (= ancoraggio )
La pubblicità ha iniziato a sfruttare gli ancoraggi facendo campagne con forte emozionalità e collegando a quella esperienza o la marca dell’azienda o il prodotto, senza offrire nient’altro.
Trovate differenze tra questo e il Carosello?
Come avrebbe mai potuto continuare a funzionare questa tecnica dell’ancoraggio tra stato d’animo e marchio, quando in praticamente negli anni ’90 in ogni settore di mercato spuntavano competitori come funghi e i consumatori andavano alzando le loro barriere protettive diventando sempre più furbi e attenti ai vantaggi inconsistenti?
Nel momento in cui più di qualunque altra cosa il consumatore aveva bisogno di sentirsi dire perché comprare un prodotto piuttosto che un altro, si è deciso di puntare tutto sulla pubblicità spettacolo.
Si è deciso che l’approccio scientifico era diventato retrogrado e limitante, i pubblicitari hanno preferito credere le “tecniche avanzate di advertising americane” avrebbero funzionato anche in Italia.
Un paese dalla situazione economica e imprenditoriale completamente diversa, ancora reduce dalla “bolla di ghiaccio” del Carosello e in preda all’incapacità di gestire l’aumento dell’offerta e di segmentare correttamente il mercato.
Così si è arrivati a quello che oggi è il pensiero comune che la pubblicità non serva per aumentare le vendite.
La realtà è che quel tipo di pubblicità non serve ad aumentare le vendite.
Sia chiaro, per la Pepsi quella pubblicità ebbe un successo assoluto.
Ma sarebbe interessante scoprire alcune cose:
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Innanzitutto quanto è costato alla Pepsi uno sponsor come Michael Jackson?
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A quanto hanno ammontato i ritorni sull’investimento?
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C’è stato un aumento sensibile degli utili?
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Ma soprattutto, è riuscita Pepsi nell’unico suo intento, che è quello di scalzare il noto brand leader di mercato dalla lattina rossa e lo stile inconfondibile?
Un esempio palese in Italia
Lo spot della Omnitel (oggi Vodafone) che pubblicizzavano la prima carta ricaricabile “Dippiù”.
Come dimenticare l’abbagliante e caldissima Megan Gale delle pubblicità della Omnitel degli anni ’90-’00?
Se non ve ne ricordate nemmeno uno, meschini siete. Eccone un esemplare.
Una storia di un minuto e mezzo in cui la bellissima modella australiana stimola i sogni più proibiti di tutti gli italiani, diventando il sogno erotico di giovani e adulti, e… e la ricaricabile?
Solo i più attenti probabilmente si ricorderanno de “la prima che ti offre il 50% di ricarica in più”.
Come vedi un vantaggio differenziante fortissimo sul quale Omnitel avrebbe potuto focalizzare la sua forza (quando sei il primo in qualcosa acquisti un vantaggio incredibile contro tutti i competitors, ma solo se sei abbastanza bravo da ricordarlo e ribadirlo nei momenti giusti).
E invece si decise di seppellire il prodotto pubblicizzato sotto le curve e la cascata di capelli corvini della Gale.
Qui l’ancoraggio tentato è evidente: la sensazione piacevole di vedere una bella ragazza in abiti succinti + il prodotto. Stop.
Non abbiamo dati certi sulle vendite raggiunte da Omnitel in quel periodo, ma l’impressione è che, oltre ad aver reso famosa e desiderabile la modella e aver fatto vendere milioni di copie alla colonna sonora, la prima ricaricabile non abbia avuto particolare riscontro sul mercato.
La storia di Omnitel potrebbe essere una conferma di come sono andate le cose.
Una spy story in cui una (costosissima) testimonial è la prosperosa eroina protagonista per vendere una sim ricaricabile col 50% di ricarica in più non sarebbe la strada giusta da seguire nemmeno oggi, se si hanno obiettivi concreti sul mercato.
Ritornando alle tecniche dell’ancoraggio, voglio mostrarti più nello specifico quali sono state le conseguenze.
Perché adottare queste strategie nell’advertising ha portato la pubblicità a 3 tipi diversi di inefficacia:
- Emozione + prodotto: ancoraggio col prodotto = La gente non riconosce il brand
Il caso è quello dello spot della Omnitel dove viene pubblicizzata un’offerta specifica.
E quindi? E quindi se il consumatore non riconosce il brand non ha nessun motivo per acquistare specificamente il prodotto di quella marca.
Stimolare il bisogno latente o reale di un prodotto senza però dire che solamente tu sul mercato puoi soddisfare quella specifica richiesta porta il consumatore a fare questo tipo di ragionamento:
“Potrei trovare la stessa roba a meno prezzo, no? Ormai con tutta la concorrenza che c’è in giro… O magari potrei acquistare dal leader di settore, che mi offre una qualità percepita migliore, o una migliore garanzia.”
Chi lo sa.
Chi lo sa se i consumatori di TIM all’epoca di quello spot non abbiano chiamato il proprio operatore per sapere se offrivano qualcosa di simile? Potrebbe essere.
E così o si rivolge al leader di settore (prezzo più alto e percezione di qualità più alta), o a quello a basso costo (prezzo più basso, risparmio).
In entrambi i casi non c’è ritorno su investimento.
Sotto questo punto di vista Omnitel aveva una Ferrari in mano senza la benzina dentro. Essere i primi in una categoria vuol dire essere la Ferrari. Non sfruttare questo vantaggio vuol dire non essere capaci a fare benzina.
2. Emozione + brand: ancoraggio col marchio = La gente non riconosce il prodotto
In questo caso alla fine dello spot c’è l’ancoraggio col marchio, ma quella che manca è l’offerta specifica, come nel caso di Pepsi.
Non viene dato al consumatore nessun motivo per acquistare, né viene detto di farlo.
Se fai advertising senza reason why e senza una chiara chiamata all’azione d’acquisto la gente difficilmente compra.
Mentre tu hai già speso i tuoi soldi, non c’è nessun ritorno sull’ investimento.
3. Emozione/creatività e basta: la gente non riconosce né il prodotto né il brand
Un esempio? Il guerrilla marketing è uno degli esempi più evidenti dove viene adottata la strategia di creare una forte emozione dirompente e di disturbo nella quotidianità dell’utente, ma con una presenza di marchio o prodotto in genere talmente bassa da passare spesso e volentieri inosservati.
Guarda questo caso di guerrilla marketing. Chi è il “mandante”?
Nel guerriglia marketing, l’investimento maggiore non è il denaro ma la creatività e l’immaginazione, nel tentativo di ottimizzare ogni singolo euro investito di un budget generalmente limitato (anche se i grandi brand non sono certo tagliati fuori dal gioco).
Il guerrilla marketing è in pratica una forma di spettacolo per coinvolgere un maggior numero di utenti a basso costo.
Va ovviamente molto di moda e trova applicazioni da più di mille anni fa.
Stai sicuro che sul web non troverai nessuno che parla male delle campagne di guerrilla marketing.
Ma non ti preoccupare. Ci sono qui io a darti un’alternativa alla massa di capre che preferiscono imbottigliarsi nelle corsie più trafficate invece che prendere la super strada.
Perché non va bene per te il guerrilla marketing?
Primo: per la qualità del cliente acquisito.
Che tipo di clienti ti porta un’azione di guerrilla marketing?
Di ogni. Ma di veramente interessati al brand per soddisfare un loro bisogno?
Ogni tipo di persona che presa dall’entusiasmo di quell’idea creativa, si avvicinerà al brand per un periodo più o meno lungo di tempo. E, così come si è riusciti ad acquisirlo a basso costo e in breve tempo, in altrettanto breve tempo lo si perderà.
Ricorda che acquisire un cliente di qualità (un cliente di qualità è uno che ha 10 pacchi di 10 banconote da 500 da infilare nel tuo portafoglio così, al volo, per intenderci) ci vuole un’azione di altrettanta qualità.
E imbastire un circo non è una di queste.
Secondo: l’utente non sa cosa deve fare
Ovvero manca totalmente la chiamata all’azione. E perché, perché il brand è troppo concentrato a spiegare e giustificare lo spettacolino appena imbastito per far capire agli utenti cosa volevano ottenere.
Un po’ più in fondo a questo post trovi un’immagine di una campagna di guerrilla marketing della Vodafone.
Immagina di trovarti quel volantino in tasca.
Immagina anche di superare quella sensazione sgradevole che ti coglierà quando te lo trovi in tasca (se continui a leggere, più avanti capirai il perché di questa frase).
Ok. A quel punto cosa devi fare? Non lo sai, perché non c’è una chiamata all’azione. Non c’è un link, non c’è un numero, non c’è una richiesta specifica.
Nel guerrilla marketing non viene detto all’utente cosa deve fare, non viene detto di acquistare.
Il motivo è semplice: perché il guerrilla marketing non è advertising per vendere.
Come ultima cosa, ti ricordo questo.
La guerriglia è in termini militari una tattica che non viene condotta in campo aperto perchè l’avversario più debole non è in grado fronteggiare il nemico più forte.
Una deliberata ammissione di debolezza, è come dire ai propri utenti: “Non abbiamo abbastanza soldi da investire in advertising, non abbiamo qualità differenzianti né vantaggi consistenti da offrirvi. Ma non preoccupatevi, abbiamo tante buone idee e tanta voglia di farvi ridere ed emozionare.”
Voglio farti un ulteriore esempio con la campagna di guerrilla marketing per farti capire quali sono gli effetti collaterali dannosi a cui potrebbero andare incontro queste strategie.
Vodafone in Romania pubblicizza la sua assicurazione contro il furto assumendo dei borseggiatori professionisti per fare il loro lavoro, solo che al contrario: infilare di nascosto nelle borse dei passanti le cartoline pubblicitarie a forma di smartphone.
Cioè, Vodafone paga dei ladri professionisti per metterti le mani in borsa, o in tasca, infilartici un volantino e dire: “Hai visto quanto sei insicuro? Hai visto quanto poco sei protetto camminando per le strade di Bucarest? Passa a Vodafone! (tanto tutti i ladri lavorano per noi)”
Come ti sentiresti se scoprissi che una multinazionale pagasse dei delinquenti professionisti in grado di metterti le mani nella borsa a tua insaputa?
Sapere che durante il giorno una persona ti ha frugato lì dove tieni le tue cose per infilartici un volantino non è certo una sensazione piacevole a cui associare il tuo brand.
In questo caso d’accordo, il brand e il prodotto c’è, ma le sensazioni negative di insicurezza e violazione abissano tutto quanto.
Cosa te ne viene in tasca, alla fine di tutta questa pappardella?
Te ne viene molto, ti assicuro.
Alla fine di questo capitoletto hai imparato almeno 4 cose.
Magari ora non te ne rendi conto ma vedrai che al momento del bisogno ti saranno utili.
Perché in pratica quando nella vita di tutti i giorni ti troverai ad affrontare certe situazioni, ti si innescherà automaticamente un meccanismo nella mente che ti dirà qual è la cosa giusta da fare e quali sono le scelte che invece ti farebbero sentire come se fossi stato appena derubato.
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Quando dovrai scegliere un’agenzia di comunicazione, capirai al volo se seguono strategie di hard selling, cioè per vendere il tuo prodotto e basta, o di soft selling, ovvero basate sullo spettacolo
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Quando ti troverai a pianificare una strategia per pubblicizzare quello che vendi, avrai ben chiaro in testa che pensare prima di tutto alle emozioni che può creare ciò che vendi non ti porterà soldi in tasca
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Capirai che prima di fare pubblicità di immagine o prima di pensare a spot sulla falsariga del Carosello, devi assolutamente trovare UN SINGOLO vantaggio consistente di ciò che vendi che ti permetta di liberarti una volta per tutte dalla concorrenza
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Quando ti troverai nel bel mezzo di quelle fastidiose riunioni con account o col direttore creativo, avrai ben salda nel pugno la situazione e saprai perfettamente quale direzione dovranno prendere i tuoi advertisement, perché un azione di guerrilla marketing non fa per te e perché dovresti piuttosto scegliere un approccio diretto, che va contro la tua concorrenza
A presto
Cosimo Errede